JUSTE LA FIN DU MONDE – Xavier Dolan – Francia, 2016.

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Un’ora e mezza del più intenso flusso affettivo, di rabbia, disagio, dolore, a palesare quanto possa essere enorme la misura del potenziale emotivo che risiede all’interno di una famiglia.
E in particolare come paradossalmente, la sua esplosività sia direttamente proporzionale a quanto è carico di non detti, di assenze e di vuoti.
Vuoti affettivi che, a scapito del termine, non riguardano affatto l’assenza di affetto, l’affetto può essere, e spesso è, immenso, infinito, ma concernono l’assoluta incapacità di esprimerlo, di comunicarlo, di prenderselo e goderselo così come di dispensarlo, con il risultato della sua implosione e esito della conseguente gigantesca frustrazione in rabbia, aggressività e sofferenza altrettanto intensi.
Tutto questo è espresso in tutta la sua drammaticità nella messa in scena di un pranzo di famiglia organizzato per festeggiare il ritorno in visita, dopo 12 anni di assenza, di uno dei suoi membri, il figlio intermedio Louis.

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Xavier Dolan è il regista perfetto per rappresentare uno scenario come questo, nella la sua nota estrema confidenza con i volumi alti e con l’altrettanto alta emotività espressa, si trova perfettamente a suo agio e assolutamente padrone in situazioni di tale tensione, nonostante ci si possa ancora chiedere, dopo le ormai numerose dimostrazioni di precoce talento e di un estro fuori dalla norma, come a 27 anni, un ragazzo della sua età possa essere in grado di esprimere e rendere con tale chiarezza le sfumature più nitide e differenziate, appartenenti non a uno, ma a più elementi totalmente diversi tra loro all’interno di un nucleo familiare, di dinamiche così complesse e stratificate.

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In tanti lo hanno definito un film finto, costruito, di una drammaticità ostentata ed eccessiva, tanto da risultare stucchevole e forzata.
Vi è al contrario una quantità cospicua di caratteristiche, sia del film che del giovane regista, che evidenziano come sia esattamente il contrario e ne dimostrano invece l’autenticità.
Basti pensare alle altre pellicole firmate da Dolan, anche solo al penultimo Mommy o a Laurence Anyways per esempio, dove è palese una modalità comunicativa, una drammaticità, un’intensità che gli appartengono, che gli sono intrinseche, che sono talmente sue da renderlo, soprattutto nei primi film, più immaturi e acerbi, passibile di essere considerato troppo autoreferenziale, troppo concentrato sui suoi vissuti, palesemente e immancabilmente presenti nelle sue opere, ma di certo, tutto meno che fasulli.
E Juste la fin du monde ne è semplicemente un’altra manifestazione, nella quale il cineasta canadese sceglie di rappresentare questa volta un soggetto di cui non è l’autore, peraltro facendolo totalmente suo, e sapendolo rappresentare con l’intensità e lo slancio che gli sono propri.

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Assistiamo a una dinamica familiare in cui tutto è urlato, a partire dal tono delle voci, se ne percepisce la tensione anche prima che Louis arrivi.
Quella tensione così intensa, quell’inquietudine costante è uno degli aspetti più pregnanti e meglio comunicati del film.
Quell’agitazione che esita nell’emozione che vediamo sia negli occhi della mamma che nell’abbraccio della sorella quando il Louis entra in casa.
È una sorta di urgenza, come se fosse un crescendo che non vede l’ora, che necessita di culminare in un apice per poi finalmente rilassarsi ma in realtà non si rilassa mai.
Il sollievo dell’abbraccio iniziale dura pochissimo.
Suzanne, la figlia più piccola, gli toglie la giacca, quasi gli rovina addosso.
È un amarsi talmente grande, esplosivo, maldestro, irruento, che sbaglia continuamente mira, e non arriva.
Ne arriva il rumore, le urla, ma è talmente pericoloso che non trova accesso all’anima delle persone verso cui è diretto.
Una comunicazione talmente prorompente e carica di dolore che non accede, non passa mai.
Ci troviamo davanti a questa costante inaccessibilità, un continuo sbattere su delle porte chiuse, che nonostante il desiderio e il bisogno infinito di scambiarsi quell’affetto, restano chiuse e tengono fuori quell’intensità.
E noi ne sentiamo il fragore, quello di quando l’impeto si infrange sulla porta chiusa. Chiusa con dei lucchetti che hanno un’unica combinazione, sconosciuta, chiusa solo a loro, proprio a loro che si amano così tanto.
E li tiene fuori tutti quanti. Perché tutti restano fuori, non c’è uno di loro, nessuno dei membri di questa famiglia disastrata che ha la chiave, che può concedersi di accogliere o di dispensare quell’affetto, sono tutti esclusi da quel calore affettivo equilibrato che li appagherebbe, che li calmerebbe come l’affetto della mamma calma un neonato che strepita.
Tale penosa inaccessibilità è espressa in modo incredibilmente efficace e insieme alla distorsione che caratterizza ogni interazione tra i suoi personaggi, è senza dubbio uno degli elementi più dolorosi e significativi di questa rappresentazione.

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Tutto è veemente, potente tanto da stridere, come uno stereo sparato a un volume troppo alto, ogni elemento dell’opera lo trasmette, ognuno dei suoi personaggi, tutto l’ambiente che li circonda, le peculiarità che li caratterizzano.
Le reazioni della mamma sono tutte in eccesso, sembra svampita, fuori dal mondo, fuori luogo in tutto, ma non le sfugge niente. La sua espressione, la sua voce, il suoi gridolini totalmente a sproposito, il colore dell’ombretto, le unghie, le collane.
La figlia le parla e lei non la vede nemmeno, la comunicazione è del tutto distorta, stridente, fatta di note dissonanti.
Fratello e sorella appena fiatano, si attaccano, si aggrediscono, non sono minimamente in grado di sostenere una conversazione, lungi dal detendere, infiammano ciò che è già teso.
E tutto è estremamente amplificato dalla presenza di Louis, dalla loro emozione per il suo arrivo, e quanto più è grande l’aspettativa, la speranza in quest’incontro, tanto più sono rovinosi e distruttivi i loro tentativi di interazione.
Dolan sintonizza perfettamente tutti i colori del film, le musiche, i primi piani con questa modalità comunicativa, rendendo ogni elemento di espressione altrettanto eccessivo e potente, e necessario all’insieme.

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Antoine, il figlio maggiore, interpretato da un grande Vincent Cassel, è forse il personaggio più bello, intenso e triste. In tutta la sua rabbia, la sua concretezza, esprime ancora più degli altri il contrasto tra l’affetto che prova e la totale incapacità di darlo e di prenderselo.
Ancora più di tutti gli altri, essendo l’elemento apparentemente meno interessato alla condivisione, comunica come si possa essere colmi di uno slancio che rimane totalmente represso e prigioniero di un’anima incapace di esprimerlo, e che per la frustrazione sputa fiele.
È aggressivo, quasi violento, lo temono, bellissimo il ruolo compensatorio della moglie che sembra dover intervenire per mitigare la sua collera, ogni volta che si innesca.
Ma nonostante la sua aggressività, tutto è meno che un uomo anafettivo.
Quando la moglie parla con Louis, è talmente coinvolto che non solo non è in grado di partecipare, ma nemmeno riesce a guardarli. Sta di spalle e lascia che sia lei a raccontargli dei suoi figli, di quanto gli somigliano, e quando viene interpellato sminuisce sarcasticamente in modo sprezzante.
“Non, j’adore oublier les trucs qui sont les plus importants pour moi”

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Ed è la pecora nera, il cattivo, quello che rovina tutto, gli è stato affibbiato quel ruolo, un etichetta indelebile che lo condanna a un’inaccessibilità ancora più drammatica e frustrante, mentre in realtà non è altro che l’elemento catalizzatore di tutta la negatività che permea l’intero nucleo familiare.
A tratti esplode, fa più baccano degli altri, il pazzo sembra lui, l’unico invece che ogni tanto squarcia un teatrino che non regge.
Ma tutto finisce sempre per essere attribuito al suo ruolo imposto, non facendo altro che dare coerenza a quella realtà distorta, alimentandone la cacofonia, la disarmonia, e confermando l’inaccessibilità per tutti.
“C’est encore la foute du mechant Antoine!”
Ogni tanto tenta di ribellarsi a quel copione, fino al disperato exploit finale in cui culmina tutta la sua frustrazione.

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Meravigliose le singole scene, prima tra tutte il racconto delle “domeniche” un evento caro alla famiglia, emotivamente caldo, che la madre si ostina a voler ripetere a ogni loro riunione, di cui conoscono a memoria ogni frase e che nel loro essere maldestri, li rende commoventemente uniti.
Louis e Antoine si guardano per un secondo che fa intuire il valore che ha per loro quel siparietto, Antoine non regge ed esce e poi da lontano, fuori dalla stanza, sentiamo la sua voce che corregge una frase alla madre, dando il suo necessario contributo, e come la limatura del ferro, tutto si unisce a formare un unico nucleo sgangherato, logorato, ferito ma perfettamente unico e appartenente solo a loro. La loro storia, il loro mondo.

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Bellissimi anche i tre confronti a due, nei quali singolarmente, ognuno degli elementi della famiglia, madre, sorella e fratello, tentano invano un contatto con Louis.
Forse la più intensa e commovente, quella tra Louis e la madre, che esce per un attimo dal personaggio sopra le righe che normalmente incarna e si sforza in tutti i modi di incontrare il figlio, di accedere alla sua anima, di trasmettergli l’importanza per ognuno di loro di ricevere un minimo di lui, che invece non ce la fa, non ce la fa mai, non riesce mai a darsi, nemmeno quando lei lo abbraccia, quando gli dice in modo diretto e totalmente disarmato quanto lo ama, nemmeno lì riesce ad essere generoso e a donare niente di più del suo mezzo sorriso.

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E Suzanne, invece, la sorellina minore impersonata da Lea Sedux, lo ha totalmente idealizzato, è quella che lo conosce meno, che era più piccola quando se ne è andato. Cerca in tutti i modi di avvicinarsi a lui, di trovare l’affetto che le è mancato, di sentirsi vista.
“Peut-etre, t’as regretté, t’avais besoin de nous…”
E quando lui non può corrispondere, non è in grado di corrispondere alle sue aspettative, pur di non sentire quella distanza, si scusa.
Gli racconta quanto lui sia importante per lei, per loro, quanto cerchino di riempire la sua assenza idealizzandolo; ha i suoi articoli appesi sulle pareti della sua stanza, gli dice di come tutti attendano e collezionino le sue brevi e insufficienti cartoline, quelle con poche parole scritte, che chiunque, anche il postino può vedere.
Lui ascolta, si vede che lo colpisce ma quasi si sente in colpa di essere così importante, di sicuro per averli abbandonati.
Non riesce nemmeno a sedersi accanto a lei, rimane in un angolo della stanza.

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E quando provano a parlare i due fratelli, ancora una volta falliscono, Antoine vomita addosso a Louis tutta la sua delusione, il dolore di sentirlo lontano, e lo fa con tanto disprezzo quanto la cosa lo fa soffrire.
Smonta ogni tentativo del fratello di provare a dare importanza al loro incontro, al loro rapporto, accusandolo e non a torto, di simulare un coinvolgimento che non è naturale, non è spontaneo, ma è messo lì per tenerlo buono e fargli credere qualcosa che non c’è.
“Tu remplis le vide entre nous deux…”

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E infine lei, l’elemento esterno, Catherine, la moglie di Antoine; una come sempre meravigliosa Marillon Cotillard, altro personaggio fondamentale, che nella sua palese diversità dagli altri in una dimensione che le appartiene solo indirettamente ma che è altrettanto chiaro che non è il suo mondo, rende ancor più tangibile e mette in risalto l’essenza drammatica e dissonante di questa famiglia.
È bellissimo vedere come cambia la sua emotività rispetto alla loro. L’attrice è davvero di una bravura incredibile nell’esprimere proprio un volume e una velocità diversi anche solo con gli occhi o con un sorriso.

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Anche Louis ha un volume diverso, solo che mentre in Catherine, quella differenza di volume sta a significare una diversa affettività, una diversa modalità di sentire e di comunicare, in lui palesa distacco, come uno strumento che abbandona l’orchestra, che nel separarsi, si è allontanato, ha perso l’abitudine a quel volume, se ne è forse disintossicato, mancando terribilmente alla riuscita completa della melodia.
Riconosce perfettamente le note, il motivo, il ritmo, ma non lo suona, ne rimane distante, non ne è più in grado, ne ha paura, se ne protegge.
Riesce tristemente a proteggersene.

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E così abbiamo il privilegio di ascoltare quest’orchestra triste, monca, stonata ma piena di anima e dolore che Xavier Dolan ci ha regalato, che riempie ogni spazio e ci lascia storditi ma ne vale assolutamente la pena, come in qualsiasi esperienza di energia e vitalità infinite.

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LA LA LAND – Damien Chazelle – USA, 2016.

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Dopo un esordio tutt’altro che silenzioso, che pur non essendo esente da difetti, non è certo passato inosservato(Whiplash, 2015), Damien Chazelle apre la 73esima Mostra Cinematografica di Venezia in grande stile, firmando un musical travolgente nel quale cinema, danza e musica confluiscono con una forza prorompente in un’ unica direzione, conquistando e riuscendo più volte a commuovere anche lo spettatore più lontano dal genere.

Chazelle unisce alla perfezione e con una grande cura dei particolari, una serie di elementi formali ed estetici, colori, simmetrie, coreografie, luci, che entrano in totale sintonia con i contenuti e con le performances degli attori, utilizzando una colonna sonora che oltre ad essere bellissima, è straordinariamente evocativa e trascinante, contribuendo in larga misura al coinvolgimento emotivo, tanto che ci si ritrova in tanti a intonarne i motivi più orecchiabili anche dopo la visione.

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Entrambi all’altezza i due protagonisti, interpretati da Emma Stone e Ryan Gosling, ma una menzione davvero speciale va indubbiamente a lei, splendida interprete femminile, che al di là della sua incredibile e oggettiva bellezza, brilla letteralmente di luce propria, irradiandola, la stessa trasmessa dai colori della pellicola, armonizzandosi perfettamente con le immagini.

Ryan Gosling invece, che non detiene lo stesso patrimonio innato e naturale della sua coprotagonista, compensa assolutamente interpretando un ruolo nel quale riesce a restituire con grande efficacia, una luce altrettanto intensa, quella di un’essenza primaria, individuale, unica, calda, viva, il cui valore costituisce il nucleo centrale del film.

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L’attore canadese incarna il sogno e la passione più preziosi quelli da tenersi stretti, da coltivare, da crescere, la fonte dell’energia che diventa forza propulsiva, tenendo in piedi e portando avanti l’individuo, e nello stesso tempo, proprio perché possiede la chiara consapevolezza del valore infinito di quel bene così prezioso, la capacità di riconoscerlo in chi ama e di alimentarlo con talmente tanta intensità da dargli la forza di emergere e prendere vita propria.

Los Angeles fa da contesto ideale per accogliere la rappresentazione del valore dei sogni, del credere profondamente nelle proprie passioni, del portare avanti ad ogni costo ciò che è frutto della propria linfa vitale, a prescindere dalla paura di non ricevere consensi, quella paura che paralizza, ospitando contemporaneamente anche gli aspetti più controversi e ombrosi di questo messaggio, che potrebbe sembrare banale, ma, oltre che essere reso magnificamente, non è mai inutile.

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La narrazione segue un percorso molto semplice, quasi elementare, sviluppando due elementi nodali fondamentali che si intersecano e si compenetrano, nell’umanissima difficoltà di trovare un equilibrio.

A uno sguardo più superficiale, data la risoluzione degli eventi con la quale esita la vicenda, potrebbe sembrare che individualità, passione personale, forza del proprio essere, siano incompatibili con la condivisione degli stessi, come se l’unicità e l’essenza primaria di un individuo non potessero essere contenuti nello spazio limitato di una relazione, come se questa avesse dei confini troppo stretti per contenerne più di una.

In realtà il film comunica esattamente il contrario.

È assolutamente vero che purtroppo non sempre si verificano i tempi e le circostanze che consentano che soggettività e condivisione vadano di pari passo, e soprattutto che permettano di mantenere un rapporto vivo e in salute, ma è altrettanto vero, e probabilmente è il concetto più bello comunicato dal film di Chazelle, che senza che quel talento soggettivo venga visto, accolto, sostenuto, riscaldato, non conserva la forza, la costanza, il coraggio con i quali può essere portato avanti.

Che tante volte è presente, ma che la solitudine non lo aiuta, non che non sia possibile che si manifesti, ma che certamente l’essere riconosciuto e amato, gli dà una grande spinta.

E non è sufficiente che venga riconosciuto e amato da chiunque, altrimenti dipenderebbe dall’esterno, dai consensi, originerebbe e passerebbe da chi lo vede più che dall’anima di chi ne è portatore.

Non, non da chiunque.

Deve essere sostenuto da qualcuno che amiamo, da qualcuno che è importante per noi. Perché solo così quel riconoscimento, alla fine, non ha origine e viene nutrito da altro che dalla stessa nostra luce.

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E così, anche se Sebastian e Mia si perdono, lui riesce a coronare il suo sogno dandogli un nome in funzione di chi lo ha visto, sostenuto e condiviso insieme lui, quel sogno, e lei altrettanto, lo realizza e vince le sue insicurezze soltanto spinta dal calore di chi la vede anche quando lei non è in grado di vedere sé stessa e quello che vale.

Questo spaziare tra individualità e condivisione, si muove in una struttura solidissima nella quale tempo, memoria e ricordo hanno un ruolo fondamentale, che si manifesta sia dal punto di vista estetico, come testimoniato dal mogano dell’auto di Sebastian che si vede già nella prima scena, sia attraverso la colonna sonora, i costumi e gli elementi narrativi, come la difesa strenua da parte di Sebastian di un genere musicale pieno di anima ma poco capito dai più e che per questo sta morendo, il Jazz, o la scena, tra le più coinvolgenti, del provino durante il quale Mia canta la sua storia, ricordando la passione della zia, ai cui racconti riconduce la propria.

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Uno degli aspetti più pregevoli del film è che niente è forzato, le componenti cantate e danzate non sono mai stucchevoli, sono inserite in modo molto naturale e si alternano a quelle prettamente recitate senza imporsi o stridere in alcun modo.

Quello che normalmente in Ryan Gosling viene considerato un difetto dai suoi detrattori, il suo essere poco espressivo in questo caso diventa un vantaggio, facendo da contrappeso e stemperando la potenziale ipertrofia determinabili dalle performance di  danza e canto, rendendole molto naturali e autentiche.

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La LaLand è un film che parla d’amore, di sogni, di stelle, ma anche di paure e di rimpianti, delle strade che vengono chiuse irrimediabilmente da qualsiasi scelta e che non sappiamo dove ci avrebbero portato.

In pochi bellissimi minuti, Chazelle ci prende per mano e ci permette di percorrerne più di una, dando un po’ di respiro a una realtà limitata, dandoci per un attimo l’illusione di poter dare spazio ai sogni infranti, di poter aprire le strade chiuse, con una freschezza e una delicatezza che non ci fa sentire troppo forte il rumore quando cadono.

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PATERSON – Jim Jarmusch – USA, 2016.

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È il tuo essere vivo in questo mondo che ti rende poeta, nient’altro.
I tuoi rituali i tuoi respiri, i tuoi affetti, ogni istante vissuto nella giornata, assaporato e valorizzato, diventa essenza.
Una scatola di fiammiferi.
Svegliarti accanto a chi ami.
Trascorrere il tempo di una birra in un bar che senti casa.
Un incontro inaspettato.
Qualsiasi cosa ti riguardi è essenza, quindi se vuoi, poesia.
Non quello che scrivi, la forma dei tuoi versi, non gli studi, la cultura, la tua intelligenza, le tue doti, il successo, no.
Semplicemente il fatto che vivi quello che sei.
Devi solo avere il dono infinitamente prezioso di accedere all’effetto che ti fa, essere in grado di fermarti ad ascoltarlo, attingere da quel contenitore pieno di te che si autoalimenta vivendo, accade che tu possa assaporarlo, toccarlo ,vederlo, percepirlo con quanti più sensi possibile e lasciar scorrere quelle percezioni fino ad arrivare alla tua anima, farle fluire fino a consentire loro di costruire essenza, di alimentare quello che è il tuo magma più caldo.
Anche se non è se non è materiale.
Tutto, davvero tutto ciò che ti appartiene, anche se si tratta di un sogno, di un desiderio, di una ambizione, di uno stato d’animo.
La condivisione, lo scambio. Gli stimoli provenienti dall’incontro con l’essenza di qualcun altro, sia esso l’entusiasmo di tua moglie o l’innocenza di una bimba sconosciuta che incontri per caso tornando da lavoro, l’influenza del lavoro di un artista che ami.
Qualsiasi sensazione, tutto è poesia, anche quello che ti disturba, un gusto che non ti piace, la noia di uno spazio di tempo monotono e sempre uguale.
Anche quando non ti trovi, quando non ti senti più, quando sei convinto di aver messo tutto te stesso in qualcosa, di aver investito tutto, di aver messo tutta la tua anima in quel piccolo libro e poi lo perdi.
Quell’improvvisa sensazione di vuoto, di non esserci più, che non valga più la pena di rimettere ancora l’anima da nessun’altra parte se è così facile che tutto ciò in cui l’hai posta, cui la hai affidata, si sbricioli in un attimo, se è così facile che possa sparire.
Anche quello è poesia, anche quello sei tu.
Perché non è vero che non vale la pena, perché la tua anima e la tua poesia non sono il quaderno su cui scrivi, non sono la donna cui l’affidi, il progetto su cui investi; sono come ti fa sentire ognuna di queste cose, sei tu.
E nessuno potrà mai portarti via da te stesso, è sufficiente che respiri.
E ci sarà sempre, sempre una pagina bianca da riempire di te, un te di cui fare arte.

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Jim Jarmusch firma l’ennesima grandissima opera, un lavoro meraviglioso ancora diverso da tutti i suoi precedenti, ribadendo un eclettismo e una smisurata capacità di spaziare tra le sue modalità espressive e confermando, se mai ce ne fosse bisogno, quale straordinario regista sia.
Lo stravagante autore statunitense compie una duplice operazione profondissima.
Quella di rendere poetica la concretezza, infondendo valore e preziosità in ogni centimetro, odore, sapore, elemento di vita vissuta, facendo emergere dalla sua rappresentazione assolutamente essenziale e asciutta, tutta l’essenza che le appartiene.
Agendo per sottrazione, egli mette in risalto, senza mai esprimerlo direttamente, lasciandolo tutto alla libera evocazione e al dispiegarsi nello spettatore, il valore assoluto del vivere quotidiano, del tempo che passa, della gestualità, del semplice occupare un proprio spazio nel mondo.
Contemporaneamente Jarmusch ci regala con chiarezza disarmante una bellissima riflessione sull’arte, esprimendo nella più totale inequivocabilità e naturalezza, come il cuore pulsante da cui prende origine qualsiasi prodotto artistico, non sia altro che l’essenza di qualcuno che sta troppo stretta confinata dentro un individuo solo e prende forma. Che ha bisogno di trascendere da quei confini e di occupare uno spazio ulteriore, di essere trasmessa, condivisa, di viaggiare attraverso mezzi altri, di riempire l’aria, la luce, di mischiarsi con elementi che dentro l’individuo non ci sono, la luce, il rumore, il tempo.
E una volta trascesi quei confini, diventa magia, acquista totale autonomia e assume vita propria, e a quel punto può dispiegarsi oltre qualsiasi limite dato dalla finitezza di chi la produce, oltre il tempo diventando immortale, oltre lo spazio acquisendo quel potere enorme e meraviglioso di toccare le corde di chi ne venga in contatto a prescindere da qualsiasi legame con chi l’ha prodotta.
È un incontro di anime a distanza.
È l’incontro che avviene tra Paterson, protagonista maschile perfettamente incarnato da un Adam Driver che pare essere stato clonato appositamente per questo ruolo, e una bambina che condivide con lui i suoi versi, quello che vediamo tra lui e la moglie(interpretata dall’attrice iraniana Golshifteh Farahani) quando legge entusiasta le sue poesie, quello che avviene al di là di spazio e tempo tra Paterson e gli scrittori che ama, che poi diventano terreno di scambio e confronto prezioso con uno sconosciuto.
Viaggia l’arte, viaggia attraverso quello che evoca in chi ne fruisce.

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Jarmusch esprime magnificamente tutto questo dando vita a sua volta alla propria opera d’arte, alla sua poesia, colorando gli occhi e l’anima dello spettatore attraverso la cura minuziosa di ogni minimo particolare, mediante l’uso specifico dei colori e in particolare del bianco e del nero in tutte le forme mediante le quali possono manifestarsi, dando consistenza all’essenza di Laura, l’estrosa e strampalata moglie del protagonista che ha la necessità di metterli in ogni dove, mediante le movenze di un cane, mediante i caratteri in corsivo che riportano i versi scritti da Paterson.

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Elemento cardine dell’opera è un dualismo che si manifesta in diverse varianti, ognuna delle quali contraddistinta dall’essere costituita da due elementi complementari e interdipendenti nel costruire un sistema unico, un’unica dimensione che diventa il mondo di entrambi.
Primo esempio tra tutti il fatto che Paterson costituisca la rappresentazione della realtà che lo circonda, così come dell’interiorità e dell’essenza di un individuo.
Non a caso(niente è casuale in questo splendido film) il nome Paterson definisce sia l’identità che il luogo in cui vive il protagonista, una piccola cittadina a sua volta dall’identità fortissima.
Un altro modo per esprimere che non esiste una realtà data, oggettiva, ma che la realtà è quella che ci costruiamo attivamente in base a come la viviamo e al significato che le diamo e va ad apporre costantemente mattoncini nella costruzione della nostra essenza, contribuendo allo sytutturarsi del senso di sé di ciascuno.
E ancora, la calma compassata di un uomo, contrapposta e interfacciata con l’esuberanza di una donna, opposte polarità temperamentali che convergono incontrandosi in un’unica dimensione di coppia.
Così, elementi apparentemente solo estetici come le coppie di gemelli che compaiono in più occasioni nella scena o il già citato alternarsi e combinarsi di bianco e nero.
Tutti dualismi che si estendono e si articolano in un’ unicità più complessa e preziosa.

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L’essenza di Paterson è fortemente percepibile come qualcosa di caldo, di vivo, nonostante non siano mai rappresentate sue reazioni emotive di alcun tipo.
Eppure ne percepiamo il calore, la forza, l’energia che caratterizza i suoi risvegli e sfuma delicatissima nel modo in cui guarda la moglie che ancora dorme, in come la saluta, li percepiamo nell’incontro con una bambina creativa che gli è affine e che lo emoziona, nella perdita di un oggetto a lui caro, nello scambio con il gestore del locale che frequenta quotidianamente.

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Un concentrato denso e pregnante di pura poesia quindi, questa eccezionale pellicola, che illumina la vita indipendentemente da ciò che vi accade, fallimenti o successi, gioie o dolori, che la rende degna solo per il fatto di esistere, con la quale Jim Jarmusch, in un mondo sconquassato e disilluso come quello in cui viviamo, riesce ad infondere speranza e a trasmettere un senso di equilibrio nel disordine, nel caos, nell’imprevedibilità così come nella ripetitività e nella monotonia del vivere.
Un vero e proprio regalo di valore inestimabile.

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GUEROS – Alonso Ruizpalacios -Messico, 2014.

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Premiato meritatamente con il riconoscimento di Miglior Opera Prima alla Berlinale, dove è stato presentato per la prima volta nel 2014 nella sezione Panorama, Güeros, che esce soltanto in questi giorni in Italia, a distanza di due anni, è il felice esordio filmico del messicano 35enne Alonso Ruizpalacios, che dopo una carriera prevalentemente teatrale, si sperimenta con successo nel lungometraggio, confezionando un road movie sui generis e inserendosi con grazia e determinazione nel panorama cinematografico internazionale.
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Ruizpalacios utilizza l’espediente romantico e metaforico della ricerca di un vecchio cantautore caduto in malattia e nel dimenticatoio da parte di quattro ragazzi che, uniti e determinati dall’aver trovato un obbiettivo comune che valesse la pena raggiungere, sfuggono alle loro angosce, alla noia, al loro essere spaesati in un mondo che copre e soffoca le loro individualità, e trascorrono una giornata insieme attraversando una Città del Messico variegata e vivace, resa caratteristica da un bianco e nero particolarmente caldo.
Questa ricerca è il pretesto per comunicare, con una dialettica originale e incisiva, una serie di aspetti sia soggettivi che esistenziali del loro vivere, che vengono presentati con una narrazione non lineare, in modo quasi assimilabile a un flusso di coscienza multplo, associata a un’estetica molto personale, comprendente svariati elementi formali singolari e decisamente efficaci, che riescono a trasmettere qualcosa di contemporaneamente intimo e potente.
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Le continue variazioni, a tratti anche brusche, conferiscono movimento e vitalità alla struttura.
Basti pensare al deciso e rumorosissimo incipit, che irrompe urgentemente sullo spettatore, quasi travolgendolo e inducendo un iniziale stato di stordimento e di confusione cui consegue una coerente apertura a 360 gradi a un seguito del tutto incognito.
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È un’opera nella quale è possibile riconoscere momenti di grande intensità perfettamente inseriti e integrati nell’ambito di un profondo sguardo personale; ne sono un esempio eclatante le meravigliose scene in cui sono magistralmente rappresentati gli attacchi di panico di uno dei protagonisti, durante le quali Ruizpalacios rende lo spettatore in grado di osservare la situazione contemporaneamente sia dal punto di vista interiore che di osservarla dall’esterno. Si percepisce in modo estremamente realistico e coinvolgente, il vissuto individuale di chi è vittima di un’esperienza così angosciante e destabilizzante, e contestualmente si possono apprezzare accorgimenti dolcissimi come la voce della bimba che lo aiuta o la trovata straordinaria dell’abitacolo della macchina che si riempie di piume, che consente e conferisce visibilità a qualcosa che abitualmente è profondamente intimo e vissuto in estrema solitudine.
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O ancora, lo stesso obiettivo di far percepire qualcosa di proprio dall’interno, così come viene vissuto “da dentro”, il regista messicano lo ottiene per sottrazione, nelle scene altrettanto belle in cui i ragazzi indossano le cuffie e ascoltano la musica di Epigmenio Cruz, la loro meta, il cantante che una volta ha fatto piangere Bob Dylan, che li mette in contatto con sé stessi, in sintonia con il proprio essere, mentre noi percepiamo silenzio, il silenzio di qualcosa che non è contaminato da influenze esterne, di qualcosa che non viene sporcato, inficiato, condizionato, che è protetto e che avvertiamo distintamente avere un enorme valore.
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Tutto sembra rimandare all’importanza fondamentale di saper riconoscere e valorizzare la propria individualità, di saper stare con sé stessi, all’esigenza vitale di riuscire ad ascoltare la propria essenza senza dover necessariamente ostentarla o gridarla, senza dover seguire un’onda e avere bisogno di qualcosa che sia alternativo o rivoluzionario per affermare il proprio essere, il proprio sentire, il proprio pensare.
Ruizpalacios mette in scena l’individuo, la persona, la soggettività, alternando la sua presenza, osservandola in personalità diverse e inserendola in contesti completamente differenti tra loro e rapportandola ad essi, esterni o interni, privati o pubblici, diurni o notturni, sociali e in condivisione o in solitudine; a dimostrazione del fatto, così come poi viene esplicitato nel bellissimo confronto finale con il cantante, che nel momento in cui lo riconosci e vi aderisci, niente ti potrà mai portare via quello che hai dentro, che è esattamente ciò che ti conferisce forza, che ti tiene in piedi, che se ti fidi di te, se attingi a te, qualsiasi sia la tua vita o ciò che ti gira intorno, che ti coinvolge, che ti perturba, che ti destabilizza, niente ti renderà abbastanza vulnerabile da travolgerti.
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Il regista messicano contribuisce così a dar lustro al cinema del suo paese, portando una ventata di freschezza e di novità, senza peraltro risparmiarsi di farsene un po’ beffa in una scena del film in cui i protagonisti chiacchierano di cinema.
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Un lavoro sensibile e delicato, quindi, questa piccola e preziosa pellicola, originato da una fonte di idee intraprendente e vivace e attingente da una linfa vitale che scorre unendo determinazione e sentimento, dimostrando decisamente un potenziale notevole da tenere in considerazione.
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TOM À LA FERME – Xavier Dolan – Canada, 2016

 

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Presentato in concorso, alla Mostra del Cinema di Venezia del 2013, Tom à la Ferme esce in Italia soltanto in questi giorni.
Al il suo quarto lungometraggio, Xavier Dolan, dopo J’ai tua ma mere, Les amours immaginaires e Laurence Anyways, era stato ammesso per la prima volta in gara in una manifestazione così importante, novità alla quale poi ha fatto l’abitudine, considerato che entrambe le sue opere successive, Mommy e Il più recente Just à la fin du monde, sono state non solo accolte ma premiate con i migliori riconoscimenti alle corrispondenti edizioni del Festival di Cannes.
In particolare, l’ultimo lavoro del regista canadese ha ricevuto quest’anno Il Gran Premio della Giuria, fattore che probabilmente ha indotto la distribuzione italiana a dare valore ai suoi film precedenti e meno noti, offrendo così al pubblico nostrano la possibilità di apprezzarli in sala.

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La pellicola è un adattamento della pièce teatrale dal medesimo titolo di Michel Marc Bouchard, drammaturgo connazionale con il quale Dolan ha collaborato con particolare entusiasmo in questo progetto nell’autunno del 2012, scegliendo questa volta di inoltrarsi e sperimentarsi nel genere del thriller psicologico.

Come dichiarato dall’autore, che ancora una volta, scrive, dirige e interpreta il suo film, Tom à la ferme avrebbe dovuto rappresentare un cambio di direzione rispetto ai suoi lavori precedenti, nei quali è sempre stato centrale il tema dell’amore impossibile, quasi a identificare una(così definita da Dolan stesso) involontaria trilogia; anche se poi, nonostante gli intenti, sia per dinamiche che per tematiche, il cambiamento probabilmente è risultato essere meno drastico di quanto lo stesso autore si era prefissato.
Nel senso che, per quanto il focus sia centrato apparentemente su emozioni come la paura e su vissuti di tensione, e per quanto la narrazione, oltre ad essere meno esplosiva e drammatica rispetto all’intensità del sentimento che si manifesta in tutte le forme, non solo negli altri tre film anche in quelli successivi, sia avvolta da un’atmosfera molto più rarefatta, anche in questo caso si respirano identità represse, conflitti interiori profondi ed è palpabile la sofferenza relativa a una relazione non condivisibile, non riconosciuta, nemmeno quando vissuta nell’ineluttabilità della morte.

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Quindi, permane il senso di inaccessibilità, l’assenza di libertà di poter vivere il proprio essere per quello che è, e anzi, forse in Tom à la ferme queste tematiche son anche un pochino più scontate o quantomeno comunicate in maniera meno originale e potente, rispetto ai lavori precedenti.

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Elemento di novità invece, non nel senso che non sia mai stato trattato, ma nella poetica di Dolan, perlomeno fino all’uscita di questo film, è il vivere questo non riconoscimento e questa alterità nel terrore, nella paura per la propria incolumità, l’essere vittima di mentalità arretrate, ignoranti e limitate e subire il paradosso di dover aver paura di qualcosa che è generato da nient’ altro che altra paura. Paura di ciò che non si conosce, di ciò che non verrà accettato, di ciò che potrebbe mettere in crisi un’immagine di sé precostituita, vincente, e in quanto maschile, forte e dura, rinchiusa in stereotipi che tengono prigioniera qualsiasi spontaneità o empatia verso ciò che viene percepito come diverso e quindi, una minaccia.

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Ancora una volta, una madre problematica, collaterale nella narrazione ma non per questo meno ingombrante, apparente causa del non detto gigantesco che aleggia nell’aria, pesante come il piombo, consistente quasi si potesse toccarlo, e della conseguente tensione indicibile che ne deriva.

Affettivamente inadeguata, incongrua anche nella mimica e nelle espressioni emotive.
Ride, piange, si stranisce, si arrabbia, più o meno indipendentemente dagli stimoli.

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Apparentemente inconsapevole di un segreto tenuto in piedi ufficialmente dalla paura di destabilizzarla, ma retto e alimentato da qualcosa di molto più profondo, magari forgiato anche dalla sua educazione, ma ormai insito, radicato e individuabile nell’incapacità di uscire da una struttura rigida e stereotipata, che non prevede debolezza, non concepisce dolcezza, che copre qualsiasi parvenza di vulnerabilità con arroganza e violenza, perché vissute come difetti e soprattutto come prerogative che si può scegliere di non possedere.
Salvo poi venir fuori apparentemente incoerentemente in un valzer, nel prendersi cura di una ferita che si è consapevoli di aver procurato, o nell’incapacità di separarsi da ciò che tanto si teme, confermando il bisogno e l’impossibilità di viverlo.

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Violenza e arroganza molto ben espresse e comunicate da Pierre Yves Cardinal, interprete maschile nei panni di Francis, grossolano e insopportabile contadino ottuso, vittima dei suoi limiti e carnefice allo stesso tempo, probabilmente il personaggio più interessante del film.

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Così, Tom, per quanto libero di essere sé stesso e di palesare la sua verità, è invece succube della propria solitudine, e seppur per breve tempo, rischia di scegliere un’asfittica e claustrofobica “normalità” distorta in cui si sente voluto, al respirare la propria aria, a vivere nel proprio corpo e con le proprie istanze, pur di non rimanere da solo.
Ma per fortuna, bastano poche ore perché l’orrore delle inevitabili conseguenze di determinate aberrazioni, si riveli in tutta la sua atrocità e lo risvegli come una doccia fredda, dandogli l’energia e la forza di riprendersi la sua vita.

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Purtroppo, simili ristrettezze mentali e conseguenti discriminazioni e abusi sono presenti dappertutto, ma nel film l’entità della distanza e della paura del diverso è amplificata dallo scarto esistente tra un contesto cittadino probabilmente più emancipato, da cui proviene il protagonista, e l’ambiente più arretrato di un contesto isolato come quello di un villaggio rurale.

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Dolan firma un’opera forse un po’ più debole rispetto alle altre, ancora molto dipendente dal suo ipertrofico ego, che per quanto ben inserito, è sempre onnipresente nel suo lavoro, con la differenza che in questo caso è molto meno compensato da elementi di originalità e di valore, nel senso che una narrazione molto più scarna e in parte più ovvia e un’ambientazione per quanto suggestiva, così essenziale, probabilmente tolgono qualcosa al suo solito brillante potenziale.
Inoltre, l’abituale estrema esposizione della propria intimità, potrebbe rivelarsi essere un’arma a doppio taglio per Dolan, nel senso che denota un’autenticità e una genuinità, dalle quali il passo all’eccessivo protagonismo in un film che non possiede l’energia e le qualità degli altri, può essere molto breve.

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Riguardo l’ambientazione, Dolan racconta che la piece comprendeva soltanto dieci scene che si svolgevano tutte in tre soli ambienti, una camera da letto, una cucina e un granaio, mentre lui ha sentito l’esigenza di inserire dei contesti alternativi, dando la possibilità al suo protagonista di muoversi in spazi esterni, che potessero amplificare la tensione generata in quelli interni, nella previsione che egli dovesse o potesse rientrarvi. Questo racconto è indice di quanto per il regista fosse importante curare il vissuto di paura e di angoscia, che avrebbe dovuto essere il perno di quest’opera e della sua evoluzione autoriale.

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Stesso obiettivo ha cercato di ottenere nella cura della colonna sonora.
Nel progetto iniziale di Dolan, sempre in virtù dell’intenzione di operare un grande cambiamento nel suo cinema, non avrebbe dovuto esserci musica in Tom à la ferme. Egli si era fatto l’idea che da un silenzio assordante sarebbe emersa una maggiore tensione, che sarebbero stati altri rumori, come gli ululati o quello del vento, a produrre il giusto stato d’animo.
La protagonista di Laurence Anyways, Suzanne Clement, gli aveva fatto notare che l’ utilizzo sfrenato della musica pop aveva fatto debordare eccessivamente la sua presenza nel film, così, accettando e riconoscendo la critica, si è ripromesso e ha mantenuto di far suonare eventuali canzoni pop soltanto in sottofondo magari nei bar.
Parlando poi con i suoi co-produttori, si è ravvisata la necessità di una presenza sonora che favorisse la caratterizzazione dei personaggi, così si è trovato un compromesso e individuato un compositore, Gabriel Yared, che dopo aver ricevuto la proposta e i dvd delle altre opere di Dolan, ha accettato di buon grado di lavorare col giovane canadese, il quale non solo è rimasto folgorato dalla sua musica, ma ha dichiarato che questa ha influito enormemente sulla riuscita del film e sul suo esserne soddisfatto alla fine del lavoro.

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Insomma, sarà anche un film lievemente più debole rispetto ai suoi tornadi, ma Dolan dimostra sempre e comunque delle grandi doti nel suo mestiere, una cura maniacale di tutti i particolari che contribuiscono al raggiungimento dei suoi obiettivi e una grande determinazione nel produrre dei risultati in definitiva più che apprezzabili.

 

LAURENCE ANYWAYS – Xavier Dolan – Canada, 2012.

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Presentato nella sezione Un Certain Regard dell’edizione del Festival di Cannes del 2012 e vincitore della Queer Palm nella stessa occasione, esce in Italia a distanza di ben quattro anni, distribuito da Movies Inspired, Laurence Anyways, terzo, stravagante e incredibilmente intenso lavoro del giovanissimo, allora ventitreenne, Xavier Dolan.

Il precocissimo talento di quello che, senza timore di esagerare, si può considerare a pieno titolo un vero e proprio enfant prodige, é assimilabile per certi versi alla squisita spregiudicatezza e alla sfrontatezza, prive di troppe strutture, di un bambino, prerogative che il regista usa a suo favore, traendone il massimo vantaggio.
Tra le sue opere, oggi ormai sei, tutte ampiamente riconosciute sia dalla critica che dal pubblico, Laurence Anyways , nel quale Dolan è contemporaneamente regista, sceneggiatore e montatore, probabilmente rimane quella in cui questo aspetto si dimostra essere più evidente.

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La chiara genuinità, la freschezza e la sincerità del suo slancio, rendono perdonabili gli eccessi di questo esuberante piccolo vulcano, che si manifestano sia in termini di drammatizzazione, esprimendosi in una frequente esasperazione dell’emotività, che in termini di forma, facendo riferimento alle varie scene kitsch, piuttosto che ai ralenti forzati o all’utilizzo di spregiudicato di inserzioni surreali.
Le sue pellicole sono sempre urlate, mai sommesse, non è un ragazzo che comunica a bassa voce, non sussurra di certo Xavier Dolan.
Non con la colonna sonora, sempre colorata e sparata a mille, estremamente eterogenea, ancor di più in questo caso, nella quale mette insieme le musiche più diverse e teoricamente incompatibili tra loro, alternando musica classica, musica rock e musica pop della più ordinaria, facendo delle scelte volutamente fortemente commerciali, forse semplicemente perché vi si riconosce, forse a provocare chi storce il naso davanti a tutto ciò che non è “vera arte”.

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L’ipertrofia naturale dell’autore canadese si traduce in un felice connubio tra urgenza di esserci e audacia.
Di sicuro, è necessaria una notevole dose di narcisismo, ma anche di coraggio, per mettere in scena e con tanta spudoratezza, opere come le sue, strapiene di bisogno di specchi e di altrettanto palesi insicurezza e vuoti affettivi, i quali si riempiono, o meglio, provano a riempirsi dell’immagine di sé o delle sue proiezioni nei suoi personaggi, nel senso che quelli che vengono fuori, nella più totale tenerezza, sono dei vuoti perfettamente allestiti ed efficacissimi, che proprio nel loro essere iperestesici e sgargianti esprimono altrettanto magnificamente le carenze dalle quali derivano.
Vuoti che poi sono espressi in maniera più esplicita nella costante rappresentazione di dinamiche familiari problematiche e conflittuali già viste e presenti più o meno in tutte le sue opere fin dall’inizio(J’ai tuè ma mere, Tom à la ferme, Mommy).

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In Laurence Anyways, Dolan mette in scena una difficilissima relazione sentimentale tra due persone che, pur amandosi enormemente, incontrano un ostacolo più grande di loro, che dapprima li mette a dura prova, fino a minare irrimediabilmente la loro capacità di gestirlo, soverchiando il bisogno reciproco di stare vicini e di costruire e mantenere uno spazio comune, condiviso, di evolvere e crescere insieme; come se in quello spazio, nonostante la reciprocità più volte confermata, la ferrea volontà di non perdersi, il sentire di non esserne in grado, non ci si stesse più in due.

“Tout ce que j’aime de toi, c’est exactement ce que tu déteste de toi. C’est ça que tu ne dis?”

Accade che a un certo punto del loro percorso, l’espressione dell’individualità di ciascuno, rende impossibile la condivisione, che anche la percezione di aspetti che prima erano vissuti insieme naturalmente e serenamente, ad un tratto cambia forma, ne assume una diversa per ognuno dei due e inevitabilmente l’equilibrio vacilla fino a rompersi e la strada che era comune si sdoppia.

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Dolan è bravissimo a esprimere l’ineluttabilità di questo sdoppiamento, a trasmettere in tutta la sua intensità, il dolore che comporta, a rappresentare quanto si diventa inaccessibili l’uno all’altro, indipendentemente da quanto ci si ama.
E lo fa con la musica, con i colori, nella cura minuziosa dei costumi, nel dirigere sapientemente i suoi due magnifici protagonisti, Suzanne Clement e Melvil Paupaud, entrambi attori di grande espressività e notevoli doti interpretative.
Ogni elemento contribuisce a urlare quell’impotenza, contemporanea e direttamente proporzionale alla forza del legame.
Elementi che per quanto i due registi siano completamente diversi, nelle origini e nel contesto in cui sono cresciuti, nell’esprimersi, nella propria soggettività, e soprattutto nell’esperienza, non è una cosa del tutto astrusa dire che per dirompenza, stravaganza e per eccessi, possano indurre il volgere di più di un pensiero verso Almodovar.

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Quando la necessarietà dell’essere, supera il bisogno dell’altro, quello della reciprocità, che per quanto sia un bisogno primario assolutamente fondamentale nell’equilibrio di qualsiasi essere umano, soccombe di fronte a quanto sia vitale occupare il proprio spazio, affermare la propria identità, vivere la propria essenza, qualunque forma, colore, consistenza essa abbia.

Eppure, riuscire ad allontanarsi, quando ci si ama profondamente , quando si è legati fino a quel punto, è un’impresa difficilissima.
Perché prima o poi il bisogno, lo slancio, la spinta verso l’altro superano la distanza, prevalgono sul tempo, sulle scelte, sul rischio di soffrire, emergono e riprendono forma, dando luogo all’ennesima prova, profondendo ancora speranza, ancora, sino all’esaurimento delle energie.
Perché sarà questo a porre un punto, non potendo contare, la fine, per realizzarsi, sull’aiuto di un sentire sempre inesorabilmente presente.

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È interessante sottolineare come il focus di osservazione non sia prevalentemente puntato su come certo modo di essere e di sentirsi “diverso” venga additato, rifiutato, discriminato.
Sono tutti elementi presenti nella narrazione, ma l’onda che investe maggiormente lo spettatore, è piuttosto quella del dolore personale che colpisce chi, come conseguenza della rivelazione di una identità, è impossibilitato a viversi in relazione.
E questo viene rappresentato nel vissuto di entrambe le parti, entrambe sofferenti e frustrate da tale preclusione, quella del diverso e quella di chi lo ama.

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Così, paradossalmente, il vissuto di chi sposa la propria identità, per quanto questa dall’esterno possa essere percepita anormale, diversa, quello di chi risponde alle proprie istanze, è molto meno destabilizzante di quello di chi, non ha effettuato una rivoluzione di sé, ma ha subito quella dell’altro, che è sì, totalmente incoerente e lontana dal suo sentire.
E questa non è altro che la dimostrazione del fatto che per quanto dolore si possa provare nel rinunciare a un amore, nel perderlo, l’equilibrio non può stare che nel proprio baricentro individuale, che è molto più pericoloso rinunciare a sé stessi che a qualsiasi reciprocità.

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È bellissima Fred, interpretata dalla bravissima Suzanne Clement, premiata a Cannes per la sua interpretazione come migliore attrice protagonista, che non possiede nessuno degli stereotipi di bellezza tipici di questo tempo, non è magra, non è alta, non è fine, non è elegante, ma è incredibilmente vera, nell’esprimente la sua frustrazione, nel gridarla, sputarla addosso al mondo, davanti all’attonito e impotente, suo amore impossibile; ed è altrettanto bella nel ridere insieme a lui, nel desiderarlo, nel saltargli al collo quando lo ritrova.

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E infine lui, lei, Laurence.
Il suo coraggio nell’affrontare quello che gli accade, il necessario egoismo per poterlo portare avanti, per poterne gestire l’urgenza, il terrore di non essere amato, dalla madre soprattutto, ma da chiunque, senza mai retrocedere, non perché non faccia male ma perché non può, non può non fare i conti con la realtà, come non può smettere di respirare o di dormire.
E allora la lascia accadere, se ne prende tutto il carico, ne affronta gli stati d’animo, e nonostante l’inaccessibilità al padre, alla madre, alla sua donna, al mondo, continua ad amare.

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JULIETA – Pedro Almodovar – Spagna, 2016.

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Presentato in concorso alla 69esima edizione di Cannes, Il ventesimo film di Pedro Almodovar è un’opera probabilmente meno dirompente, che non possiede la veemenza e l’impeto cui il regista spagnolo ci ha abituato nelle varie evoluzioni della sua carriera.
Temi a lui cari come la passione, il dolore, il sentimento, tutti quasi sempre comunicati con la massima intensità e drammatizzazione, in Julieta sono costituiti dagli stessi elementi ma sono meno esplosivi, più compassati, la loro espressione è più asciutta ed essenziale, rappresentano vissuti costruiti nel tempo, più eterogenei, stratificati, meno immediati, ma non per questo meno potenti.
Il fatto che si tratti innegabilmente di un uomo fortemente empatico, fa sì che ogni dimensione da lui descritta, anche le dinamiche meno ricercate, che anche un abbraccio in cucina al mattino, il guardarsi nello scomparto in un treno, il ricevere una lettera inaspettata, assumano una gamma infinita di sfumature confluenti in tanti piccoli grandi punti luce che riscaldano e riempiono gli occhi e l’emotività dello spettatore.

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Il soggetto è il prodotto di un adattamento libero di tre racconti della raccolta dal titolo Runaway (In fuga in Italia) del Premio Nobel Alice Munro. L’idea nasce dal proposito iniziale del regista, di ambientare tutto il film in un treno, che gli ha fatto individuare l’ispirazione dapprima in uno dei racconti della scrittrice canadese nel quale vi è la descrizione di una scena che si svolge interamente all’interno di un vagone; proposito poi evolutosi nell’utilizzarne tre, adattandoli in base alle sue esigenze narrative, e nel farli convogliare nella vita di un unico personaggio che rappresentasse il fulcro del suo progetto, ancora una volta, instancabilmente, una donna, Julieta.
Almodovar conferma la sua grande capacità di muoversi in perfetta sintonia con ogni elemento dell’universo femminile, esplorandolo nei suoi aspetti più complessi e soffermandosi con altrettanta cura sui dettagli, finendo sempre col darne una visione d’insieme estremamente ricca e variegata, appagante ,che rende ogni sua opera un’inesauribile fonte di energia.

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Julieta è una donna estremamente sofferente, gravata da un passato difficile e penoso che ripercorre nei suoi snodi più significativi, tentando di dargli un senso e di elaborarne i conflitti che hanno influenzato e continuano a condizionare pesantemente la sua quotidianità e le sue scelte.
Così, nel progredire del suo doloroso cammino attraverso la memoria, constatiamo insieme a lei quanto sia impossibile andare avanti con la propria vita e tollerare che qualcuno con cui si è avuto un legame affettivo profondo, possa davvero smettere di amare, che improvvisamente o gradualmente, qualsiasi siano le ragioni, supposto che ne esistano di plausibili, possa accadere di non essere più importanti per una persona per cui lo si è stati, per cui si è certi di esserlo stati; di non essere più nella sua mente, nella sua anima, che quella persona possa essere diventata indifferente, di poter essere estirpati dal suo mondo, che possa dileguarsi, scomparire dallo spazio condiviso che era di entrambi.
È qualcosa che per alcuni, non solo è quasi intollerabile, ma è proprio difficilmente concepibile. La sensazione è quella di avere una vera e propria allucinazione, come se un momento si vedesse un albero, un palazzo, un fiume, un qualsiasi oggetto stabile davanti a sé, si chiudessero gli occhi e il momento successivo, quell’oggetto, che nella propria testa non può spostarsi, non può muoversi, DEVE essere lì, si riaprissero gli occhi e non ci fosse più. È una sensazione atroce, devastante, che nell’immediato stordisce, fa vacillare il proprio baricentro emotivo e a lungo termine si ripercuote poi enormemente su ogni evoluzione personale, legame, affetto futuro.

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Almodovar riesce a trasmettere magnificamente tutto questo, lo realizza e lo affronta utilizzando come strumento di narrazione un viaggio attraverso i ricordi della sua protagonista, interpretata in modo impeccabile da entrambe le attrici di grande espressività e talento, scelte dal regista per il suo ruolo, la carismatica e bellissima Adriana Ugarte che la incarna da giovane, e la più sobria e contenuta ma non meno incisiva, Emma Suarez, gravata dal peso degli anni e della sofferenza.
Un viaggio interiore intimo e solitario, che paradossalmente ma neanche tanto, assume una forma comunicativa, quella epistolare, di una lettera mai indirizzata né spedita.
Un dialogo con chi non c’è, una voce nel vuoto che esprime in tutte le sue sfaccettature l’affetto, la passione, lo slancio, comunicati mediante il potere delle immagini e delle doti interpretative degli attori, in maniera talmente sensoriale e realistica, da far sì che il dolore per la loro perdita, sia altrettanto, se non maggiormente efficace e sentito.
Quella pena tangibile e inconfondibile che assume talmente tanta consistenza da dare la sensazione di poter essere toccata, di poterne sentire l’odore, il sapore, data dall’angoscia che determina abitare quel vuoto; essere rimasta da sola a viverci, arredarlo, corredarlo di torte di compleanno che non verranno mai mangiate, di candeline che non saranno mai spente, di statuette che rappresentano qualcosa o qualcuno, di simulacri di qualsiasi cosa che non c’è purché rimanga qualcosa, modificarne la forma cambiando il luogo, i colori, le pareti, i pavimenti, ma sapere perfettamente e inesorabilmente che non è altro che il solito opprimente e irriducibile vuoto.

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È particolarmente efficace e significativa l’universalità di quel vissuto di perdita, come esso sia divenuto assoluto, che comprenda il vuoto di un lutto e allo stesso tempo quello dell’abbandono, che possa riguardare un uomo o una figlia, che non importa quale ne sia l’oggetto perché le due cose si fondono in un unico omogeneo e pregnante nulla col quale fare i conti.

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Nonostante si tratti di un film estremamente doloroso e sofferto, tutto è inserito in una dimensione molto dinamica che indica una costante evoluzione. I molteplici flashback, i frequenti riferimenti agli spostamenti, denotano un movimento perpetuo, che è specchio di vitalità, nel dolore o meno.
Vi è una continua alternanza tra contrazione e dilatazione delle dimensioni di tempo e spazio, che non sono mai statiche. Niente è immobile, tutto evoca un passaggio, un percorso. Il treno, il trasloco, il pellegrinaggio, il mare.
Un viaggio che passa attraverso tutti gli elementi cardine dell’esistenza umana, l’innamorarsi, la nascita, il tradimento, la colpa, la malattia, l’amicizia, la perdita, la morte.
Tutti vengono percorsi, toccati, sentiti, trasmessi come parte integrante della vita, come realtà che non può far altro che accadere, di cui non si può far altro che percepire l’effetto e accoglierlo, accettarlo, sia esso gioia o dolore, paura, rabbia, angoscia o sorpresa.

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Almodovar ha dichiarato di vedere la sua Julieta una persona debole e vulnerabile, addirittura la più debole tra le donne da lui ritratte, in quanto vittima delle sue perdite.
A mio avviso, il fatto che Julieta abbia subito le sue perdite, che ne abbia sofferto infinitamente, che sia impotente davanti a quel vuoto, non la rende affatto debole. Vulnerabile, forse, sì, ma non debole.
Perché quel dolore è incredibilmente vivo, viene da un’anima pulsante e qualsiasi emotività, per quanto dolorosa, è un indice di vitalità e quindi di forza. Ci vuole molta più forza per essere consapevole di quel dolore e ascoltarlo, assorbirlo, farsene impregnare, come fa lei, piuttosto che per negarselo, nasconderselo o sminuirlo, come fa di solito chi apparentemente ne è meno vittima. E lo paga comunque.

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MA VIE DE COURGETTE – Claude Barras – Francia, Svizzera, 2016.

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Altra rivelazione dalla Quinzane des Realisateurs di Cannes, che quest’anno è stata decisamente ricca di sorprese positive, a partire dall’afgano Walf and sheep, passando per i nostrani Virzì, Giovannesi e Bellocchio, continuando con il cinema sudamericano del Poesia san fin di Alejandro Jodorowsky e culminando nel gigantesco Neruda di Pablo Larrain, Ma vie de courgette rappresenta uno splendido esempio del valore e della poesia che si possono riscontrare nel cinema di animazione, nel quale la Francia si sta dimostrando sempre più prolifica e talentuosa negli ultimi anni.

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Il film, tratto dal romanzo Autobiographie d’une courgette di Gilles Paris, e diretto dallo svizzero Claude Barras, è un’opera pregevolissima, infinitamente tenera, dotata di un’anima propria capace di sprigionare un energia e un calore che arrivano dritti al cuore dello spettatore, suscitando ora commozione, ora sorrisi, con una naturalezza mirabile.

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Ci troviamo davanti a uno slancio pulito, sincero, che induce facilmente la sensibilizzazione anche del più irriducibile degli imperturbabili, toccando corde essenziali e rendendole accessibili senza drammatizzare o peccare mai di banalità o facile sentimentalismo.

Nonostante l’utilizzo di diversi elementi nei quali si potrebbe riconoscere degli stereotipi, questi non appaiono mai scontati ma al contrario, nella loro essenzialità, assumono sempre un aspetto intimo e vivo, cosicché la semplicità, lungi dall’essere una pecca, diventa un valore aggiunto.

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Coadiuvato dalla scrittura di Celine Sciamma(già regista di Tomboy e Diamante nero), Barras crea un racconto lineare, che individua in modo diretto, tutti gli aspetti più genuini e innocenti della sensibilità infantile, rendendola duttile come la plastilina dei suoi straordinari piccoli protagonisti e facendone magistralmente materia disponibile per l’emotività adulta, più strutturata e rigida, ma altrettanto avida di verità e purezza così chiare e immediate.

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Courgette è il buffo soprannome dato dalla mamma al piccolo Icare, che potrebbe sembrare un semplice nomignolo di poco conto, ma rappresenta l’unico e ultimo frammento di identità che lo fa sentire visto da un genitore per il resto totalmente incurante, l’unico a partire dal quale può costruire un senso di sé, che non può avere origine, se non dal sentire in qualche modo, anche se per venire chiamato con il nome di un ortaggio, di essere nella sua mente, nella mente di chi dovrebbe amarlo e invece lo lascia solo, completamente solo in un mondo grande grande.

E infatti Courgette vi si aggrappa in modo commovente, per poter mantenere un minimo di equilibrio quando tutto il resto del suo mondo gli crolla letteralmente addosso.

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In poco più di un’ora vediamo rappresentata tutta la profondità di condizioni nelle quali purtroppo, anche chi è in un’età in cui dovrebbe poter vivere solo di gioco e spensieratezza, si può trovare a dover affrontare e gestire realtà più grandi di lui, come la morte, addirittura per propria mano e di un genitore, l’abbandono, abusi, violenze e soprattutto, la solitudine.

Quella voragine di tristezza e rassegnazione perfettamente riconoscibile e resa in maniera incredibilmente reale nei disegni degli occhi di questi bimbi colorati, sempre vivi e mai arresi, ma con quel velo perenne che è diventato e sarà ormai per sempre parte di loro, che gli conferisce quell’alone di malinconia che si vede da lontano e che, qualsiasi riscatto possibile, nuova esperienza, traguardo raggiunto, non potrà che essere loro costante compagna di vita.

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Ma non per questo gli preclude l’unico accesso alla linfa vitale di cui è dotato ogni essere umano, il bisogno di amare e di essere amati, la capacità di darsi e di dare, l’innata spinta a creare legami affettivi, seppure inficiati o mediati dalla rabbia, dalla diffidenza, dagli ovvi muri innalzati per difendersi dopo esperienze di dolore, e anzi, proprio l’esserne così bisognosi e carenti, rende la reciprocità la prima ragione di vita, unico propulsore di stimolo e di energia, alimentatore di uno slancio vitale che altrimenti si sgonfierebbe demotivandosi.

Così non solo si rimane, ma si è più capaci degli altri di creare fortissimi legami di amicizia, complicità e di godere della presenza di chiunque dimostri umanità, empatia e affetto.

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Una profondità peraltro, del tutto scevra di qualsiasi pesantezza, alleggerita sapientemente dai colori, dai disegni essenziali e bellissimi, nei quali ogni piedino ha un potenziale evocativo enorme e sarebbe da incorniciare, dall’elementrietà della plastilina, da una neve meravigliosa che diventa fonte del più grande divertimento(gemma preziosa la scena della notte in gita), da una lattina di birra che rappresenta un’affettività dolorosa e mancante che si trasforma in una barchetta quando incontra un affetto sicuro e sincero, da una dolcissima e incredibilmente bella foto ricordo.

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E probabilmente, chi si è trovato ad essere davvero abbandonato, a vivere in un orfanotrofio, a sperare invano per giorni di sentirsi voluto, potrebbe recepire con un po’ di amarezza un fine così lieto nel quale il piccolo eroe, non solo viene adottato, ma insieme alla sua amichetta, recuperando più punti di riferimento affettivi e avendo accesso forse un po’ troppo facile a una  condizione di vita ideale per costruire un futuro che riscatti il suo triste seppur breve passato.

Perché purtroppo è un eufemismo dire che non accade sempre, in realtà quasi mai si verificano tante circostanze favorevoli e felici in vite così disastrate, e quando accadono, spesso quei cuoricini sono tanto feriti da non essere più in grado di recuperare la serenità.

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Ma mi piace pensare che anche chi lo sa, chi lo ha vissuto, chi è consapevole di questo, possa accogliere l’ottimismo, la freschezza, la poesia che questa preziosissima opera comunica, e che nel suo piccolo grande intento, essa possa favorire anche nel più disilluso, il coraggio di credere che per chiunque c’è una speranza, e che soprattutto per i più piccoli, possa essere un incentivo a non smettere mai di desiderare, di sognare, e soprattutto di sentire di meritarsi ogni briciolo di affetto, ogni momento felice, che qualcuno venga a salvarli oppure no, e che quell’amarezza lasci il posto a tutta la fiducia e il desiderio che possono sopportare, perché li meritano come tutti gli altri.

 

NERUDA – Pablo Larrain – CIle, 2016.

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Danzando in modo meravigliosamente fluido tra generi diversi, tutti perfettamente sinergici e muovendosi con estrema disinvoltura tra finzione e realtà, tra politica e arte, Pablo Larrain compie l’ennesima impresa (la sesta per la precisione), confezionando un grandissimo film, di cui non si può far altro che godersi ogni immagine, ogni dialogo, ogni sfumatura. Ancora una volta, quello che non si fa alcuna fatica a definire, senza timore di peccare di eccesso di entusiasmo, all’età di soli 39 anni, come uno dei più grandi registi viventi all’attivo in questo momento, spaziando tra noir, western, road movie, riesce a rendere totalmente originale quello che avrebbe potuto essere un biopic, traendone una sua personalissima e intima creazione, completamente avulsa da qualsiasi possibile definizione e libera da ogni tentativo di inquadramento. Creazione nella quale inserisce tutta una serie di ingredienti che la rendono preziosa e sorprendente, a partire dagli elementi visivi, come sempre estremamente curati, tra i quali spicca la sua abituale straordinaria scelta dei colori, che avvolgono e riempiono l’opera in ogni sua evoluzione, costituendo parte integrante della sua struttura, in totale equilibrio e sintonia con tutto il resto.
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Scegliendo un soggetto già di per sé estremamente carismatico e caratterizzato da una miriade di sfaccettature attraverso le quali osservarlo, Larraìn rende straordinariamente proprio il celebre poeta, suo connazionale e omonimo, Pablo Neruda, mettendone in scena un tratto di vita che affida amorevolmente al suo geniale immaginario, il che gli consente di dipingerne la figura nei suoi aspetti più contraddittori, intimi e profondi. L’idea del regista è nata dalla scoperta di un’opera di Neruda meno nota rispetto alle sue più popolari poesie d’amore, il Canto General, scritta durante la fuga e l’esilio del poeta, conseguiti alle sue prese di posizione in parlamento contro il generale Videla, le quali, data la sua celebrità e il largo seguito nel popolo cileno, lo hanno reso un personaggio scomodo per il governo, che ne ha così ordinato la cattura.
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Larraìn incentra la narrazione sulla reale fuga del poeta, adattandola alla sua personale visione dell’uomo, della vicenda e del contesto storico-sociale del momento, e inserendola in una dimensione immaginaria, prodotto dell’unione tra sue prerogative caratteristiche, quali spessore umano, visceralità ed estrema sensibilità al dolore, sia esso di un uomo, di un popolo o di una nazione, cosicché questo particolare periodo della vita di Neruda assume una luce propria potentissima che le conferisce un enorme potere di coinvolgimento. Egli sceglie di rappresentare questa figura così affascinante, proponendola nell’ambito della condizione ideale per poter identificare, osservare e comprendere un uomo: la relazione. Così, ci offre il poeta in relazione con la moglie, con il suo pubblico, con i suoi avversari politici, ma soprattutto con se stesso.
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A partire dalla, a tratti beffarda, a tratti incerta, rabbiosa e a tratti piena di orgoglio ferito, ma sempre efficacissima voce fuori campo, il regista crea un personaggio preziosissimo, interpretato da un grande Gabriel Garcia Bernal, il poliziotto incaricato di catturarlo Oscar Peluchonneau, che diviene fondamentale nello sviluppo dell’opera e nella rivelazione dei tratti peculiari della personalità del poeta, dandogli l’onere di costituirne ora il nemico, ora l’ammiratore, ora l’alter ego. Quest’ultima è probabilmente la più audace e incredibilmente incisiva manovra compiuta da Larraìn in questo film, che oltre a permettergli di affrontare il tema muovendosi su piani diversi e sovrapponendoli, quello politico, quello artistico, quello della competizione e del narcisismo dell’uomo, gli consente di stemperare la drammaticità della narrazione, includendo diversi spazi di ironia che si amalgamano perfettamente con momenti di forte tensione e impatto emotivo, particolarmente intensi.
Nello stesso tempo Larrain effettua una serie di operazioni, il prodotto di ognuna delle quali si staglia in perfetto equilibrio disponendosi a dipingere un unico quadro nel quale dà modo allo spettatore di osservare il poeta nella sua individualità, nei suoi limiti umani, nei suoi vizi, senza idealizzarlo, e contemporaneamente, nella sua urgenza politico-sociale e nella sua arte.
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Il regista cileno utilizza una delle figure più carismatiche del suo paese per denunciare ancora una volta la persecuzione nei confronti di un’intera categoria di individui che, soltanto in virtù del loro credo politico, sono stati discriminati, perseguitati, imprigionati e uccisi; e per sottolineare quanto sia stata determinante l’influenza degli Stati Uniti e del loro potere, nella storia del Cile e dei suoi abitanti.
In quest’opera come nelle sue precedenti, e nelle più recenti firmate dagli autori suoi connazionali, primo tra tutti Patricio Guzman, è impressionante riconoscere quanto l’enormità delle sofferenze e delle ingiustizie subite e vissute da questo popolo abbiano determinato un senso di identità e un orgoglio profondissimi e incredibilmente forti. Impossibile per chi li ha visti entrambi, non notare la forte somiglianza nelle immagini che ritraggono i campi di concentramento nei quali sono stati rinchiusi i comunisti cileni, con quelle mostrate in Nostalgia de la Luz, che riprendono gli stessi campi, immagini che Larraìn rafforza, intensificandone il potere evocativo, sottolineando la loro gestione da parte di Augusto Pinochet.
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Larraìn si è avvalso del solito cast impeccabile, costituito da interpreti fedelissimi con i quali ha sempre dichiarato di avere una particolare intesa, Alfredo Castro nei panni di un detestabile e come sempre ineccepibile presidente Videla, il già citato Gael Garcia Bernal, diversi degli interpreti già apprezzati nelle opere precedenti e un bravissimo Luis Gnecco, che nonostante venga da una carriera come comico, è perfettamente a suo agio nel ruolo di un Neruda incredibilmente somigliante ed espressivo.
 
Quindi, ancora per Larraìn, una straordinaria dimostrazione di talento, di spessore artistico, di potenza autoriale e di grande energia comunicativa, che lo confermano tra le più valide e autorevoli firme del cinema contemporaneo, a dispetto della sua giovane età.

FIORE – Claudio Giovannesi – Italia, 2016.

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Con Fiore, presentato alla Quinzaine des Realisateurs a Cannes e in sala dal 25 Maggio, Claudio Giovannesi, romano, classe 1978, al suo terzo lungometraggio, torna alla regia dopo quattro anni, forse un po’ più maturo dal punto di vista formale rispetto ai lavori precedenti, nei quali peraltro è chiaramente riconoscibile la necessità di raccontare una dimensione inquieta, spaesata, smarrita, perennemente in bilico; un disagio che in Alì ha gli occhi azzurri ha preso la forma del malessere dei giovani extracomunitari in Italia, e che in questo caso si incarna nella drammatica realtà del carcere minorile e di tutto ciò che ruota intorno ai difficili percorsi di vita e di crescita che vi ci portano, strade che spesso diventano canali quasi obbligati, veri e propri destini, se non quantomeno, esiti molto probabili.
In sinergia con Daniele Ciprì alla fotografia, il regista romano costruisce un piccolo prodotto delicato ma contemporaneamente potente, sentito e autentico, seppur non privo di imperfezioni, di indubbia ed encomiabile qualità.

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Dopo aver trascorso quattro mesi a stretto contatto con loro, effettuando un lungo e approfondito lavoro di ricerca, Giovannesi sceglie una rappresentazione quasi documentaristica, poco narrativa, percorrendo insieme a questi ragazzi il fluire quotidiano delle povere vicissitudini che costituiscono la loro vita, senza inserire nella trama alcun particolare evento o elemento catalizzante, consentendo così allo spettatore di percepire in tutta la sua amarezza, lentezza, indolenza, il vissuto interiore che la contraddistingue, fatto di angoscia, rabbia, paura, ma soprattutto di un gigantesco vuoto. Quel vuoto affettivo che li porta a non avere niente da perdere, a ristabilire completamente le priorità in modo apparentemente irragionevole. E quindi a rubare quando sai che sarai scoperto, a scappare quando sai che sarai preso, e peggiorerà inevitabilmente e considerevolmente la tua situazione, pur di lenirlo anche solo per qualche ora.
A reagire con comportamenti aggressivi e incongrui, quando si ripiomba in quel vuoto, quando qualcosa ti ci ritrascina dentro, quando l’unico riempitivo illusorio di quel buio interiore è la telefonata che puoi fare a casa o il colloquio con chi ti verrà a trovare. E nel momento in cui vengono meno anche quelli, in cui perdi la speranza che esista qualcuno al mondo che ti pensa, per cui sei importante, ti cade il mondo addosso e tutto perde senso.
Sì, perché è tutto lì, il senso sta tutto nel percepirsi qualcosa per qualcuno. Sentirsi visti, pensati, amati. Se si perde, o, per come si è cresciuti, non si è mai avuto questo, non ci sono gli strumenti necessari per stabilire i pilastri su cui costruire un proprio essere strutturato, stabile, capace di autoconservarsi e sopravvivere nel mondo.
Si costruiscono personalità monche, smarrite, estremamente vulnerabili, enormemente esposte a qualsiasi errore o caduta, dall’assunzione di sostanze a qualsiasi scelta autodistruttiva.

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La tragedia è che in questo film li vediamo a 16-18 anni, quando ancora ci sperano, quando cercano di colmare quei vuoti tra di loro, unendo le loro affettività monche, spaurite, nell’illusione che possano compensare le voragini profondissime che risucchiano la loro forza d’animo, che tolgono consistenza al loro essere, tenendoli in un equilibrio perennemente precario.
E poi te li ritrovi lì, dopo 10, 20 anni, ancora con gli stessi vuoti, dopo averci vissuto sopra altre decine di errori, di fughe, di ricadute, di conferme della loro debolezza e del loro senso di fallimento, ogni volta più disprezzati e meno capiti, abbruttiti, stanchi, rassegnati, con quei vuoti d’affetto incancreniti, ma esattamente con gli stessi bisogni di quando erano adolescenti, e prima ancora, bambini, che ancora l’unico modo di scorgere un po’ di vitalità nei loro occhi è dargli modo di vivere l’esperienza di qualcuno che li ha a cuore, siano essi familiari, amici, o nei casi più tristi, solo operatori che se ne occupano.

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E quando ci si chiede come si fa ad essere così stupidi da non tornare da un permesso sapendo benissimo che comporterà sei mesi in più di reclusione, come si fa a rubare un rossetto sapendo che si rischierà un rapporto praticamente certo, dar fuoco a una coperta conoscendo perfettamente le conseguenze, si dovrebbe vedere queste azioni in una prospettiva più ampia, nella quale le priorità e il razionale delle cose si ridimensionano, dove la frustrazione di sentirsi totalmente soli, di non poter respirare l’aria di tutti, di dover usare lo stesso bagno di altre dieci persone, di vedere le sbarre, supera qualsiasi assennatezza e spesso determina la compromissione e o il fallimento di qualsiasi proposito ragionevole.
E chissà quante volte, ci si trova a considerare certe condizioni o peggio, a giudicarle, senza aver mai provato frustrazioni di quel genere, e senza sapere che forse se si fosse nati in famiglie o cresciuti in contesti in cui ci si fosse trovati più volte o costantemente a dover vivere profondamente la sensazione di non essere importanti per nessuno, di non essere visti, voluti, pensati, amati, una condizione che diventa parte di sé, che diventa ciò che ti spetta, probabilmente non si sarebbe in grado di comportarsi in modo diverso.

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Pochi giorni fa in una conferenza, il noto sociologo polacco Bauman, citando Umberto Eco, ha detto: “La condizione fondamentale perché esista un essere umano è la presenza di un altro essere umano. È il suo sguardo, quello dell’altro, che definisce chi siamo. Così come non possiamo non mangiare o non dormire, non possiamo esistere senza la reazione di un altro che ci vede”.

Ecco, se si tenesse sempre presente questo fondamentale concetto, sarebbe più facile entrare in empatia e comprendere determinati stili di vita certamente scelti, ma mai a caso.
Ed è ciò che risalta di più nella tenerezza e nella verità dell’opera di Giovannesi.

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Oltre che bellissima e perfettamente a suo agio nella scena, è particolarmente carismatica la piccola e potentissima Daphne Scoccia, che, con i suoi primi piani e la sua espressività, costituisce da sola la fonte di gran parte dell’energia del film.
Pur così giovane e totalmente inesperta (Giovannesi ha dichiarato di aver scelto appositamente, a favore dell’autenticità, degli attorni non professionisti), è in grado di trasmettere molto bene vissuti profondi anche di polarità totalmente opposta, rabbia, estrema diffidenza, speranza, timidezza, gioia.
Molto bella e indicativa in questo senso la scena in cui in silenzio, solo guardando il padre che tra poche ore dovrà riportarla in carcere, esprime in modo intenso e doloroso tutta la tristezza e l’incapacità di godere dei pochi momenti di svago che le sono stati concessi.

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Incisiva e riuscita anche la partecipazione, per quanto marginale, del solito efficacissimo Valerio Mastandrea, nel ruolo di un padre disastrato che prova a rimettere insieme i pezzi della sua vita, che vuole bene alla figlia ma è del tutto incapace di occuparsene, possedendo a stento, e da pochissimo tempo, gli strumenti per badare a se stesso. E restando in piedi, a conferma di quanto detto, solo grazie a una presenza affettiva stabile, che gli dà modo di dare un senso alla sua vita.

Tra i difetti – forse un po’ troppo lungo -, non si può certo definirlo un film avvincente, ma non vuole nemmeno esserlo, ci si trova senza dubbio davanti a un prodotto riuscito, nel quale è possibile individuare diversi pregi, non ultimo, tra gli altri, quello di introdurre lo spettatore in una realtà non esattamente accessibile e di comunicarne più che discretamente gli aspetti più profondi.

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