FIORE – Claudio Giovannesi – Italia, 2016.

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Con Fiore, presentato alla Quinzaine des Realisateurs a Cannes e in sala dal 25 Maggio, Claudio Giovannesi, romano, classe 1978, al suo terzo lungometraggio, torna alla regia dopo quattro anni, forse un po’ più maturo dal punto di vista formale rispetto ai lavori precedenti, nei quali peraltro è chiaramente riconoscibile la necessità di raccontare una dimensione inquieta, spaesata, smarrita, perennemente in bilico; un disagio che in Alì ha gli occhi azzurri ha preso la forma del malessere dei giovani extracomunitari in Italia, e che in questo caso si incarna nella drammatica realtà del carcere minorile e di tutto ciò che ruota intorno ai difficili percorsi di vita e di crescita che vi ci portano, strade che spesso diventano canali quasi obbligati, veri e propri destini, se non quantomeno, esiti molto probabili.
In sinergia con Daniele Ciprì alla fotografia, il regista romano costruisce un piccolo prodotto delicato ma contemporaneamente potente, sentito e autentico, seppur non privo di imperfezioni, di indubbia ed encomiabile qualità.

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Dopo aver trascorso quattro mesi a stretto contatto con loro, effettuando un lungo e approfondito lavoro di ricerca, Giovannesi sceglie una rappresentazione quasi documentaristica, poco narrativa, percorrendo insieme a questi ragazzi il fluire quotidiano delle povere vicissitudini che costituiscono la loro vita, senza inserire nella trama alcun particolare evento o elemento catalizzante, consentendo così allo spettatore di percepire in tutta la sua amarezza, lentezza, indolenza, il vissuto interiore che la contraddistingue, fatto di angoscia, rabbia, paura, ma soprattutto di un gigantesco vuoto. Quel vuoto affettivo che li porta a non avere niente da perdere, a ristabilire completamente le priorità in modo apparentemente irragionevole. E quindi a rubare quando sai che sarai scoperto, a scappare quando sai che sarai preso, e peggiorerà inevitabilmente e considerevolmente la tua situazione, pur di lenirlo anche solo per qualche ora.
A reagire con comportamenti aggressivi e incongrui, quando si ripiomba in quel vuoto, quando qualcosa ti ci ritrascina dentro, quando l’unico riempitivo illusorio di quel buio interiore è la telefonata che puoi fare a casa o il colloquio con chi ti verrà a trovare. E nel momento in cui vengono meno anche quelli, in cui perdi la speranza che esista qualcuno al mondo che ti pensa, per cui sei importante, ti cade il mondo addosso e tutto perde senso.
Sì, perché è tutto lì, il senso sta tutto nel percepirsi qualcosa per qualcuno. Sentirsi visti, pensati, amati. Se si perde, o, per come si è cresciuti, non si è mai avuto questo, non ci sono gli strumenti necessari per stabilire i pilastri su cui costruire un proprio essere strutturato, stabile, capace di autoconservarsi e sopravvivere nel mondo.
Si costruiscono personalità monche, smarrite, estremamente vulnerabili, enormemente esposte a qualsiasi errore o caduta, dall’assunzione di sostanze a qualsiasi scelta autodistruttiva.

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La tragedia è che in questo film li vediamo a 16-18 anni, quando ancora ci sperano, quando cercano di colmare quei vuoti tra di loro, unendo le loro affettività monche, spaurite, nell’illusione che possano compensare le voragini profondissime che risucchiano la loro forza d’animo, che tolgono consistenza al loro essere, tenendoli in un equilibrio perennemente precario.
E poi te li ritrovi lì, dopo 10, 20 anni, ancora con gli stessi vuoti, dopo averci vissuto sopra altre decine di errori, di fughe, di ricadute, di conferme della loro debolezza e del loro senso di fallimento, ogni volta più disprezzati e meno capiti, abbruttiti, stanchi, rassegnati, con quei vuoti d’affetto incancreniti, ma esattamente con gli stessi bisogni di quando erano adolescenti, e prima ancora, bambini, che ancora l’unico modo di scorgere un po’ di vitalità nei loro occhi è dargli modo di vivere l’esperienza di qualcuno che li ha a cuore, siano essi familiari, amici, o nei casi più tristi, solo operatori che se ne occupano.

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E quando ci si chiede come si fa ad essere così stupidi da non tornare da un permesso sapendo benissimo che comporterà sei mesi in più di reclusione, come si fa a rubare un rossetto sapendo che si rischierà un rapporto praticamente certo, dar fuoco a una coperta conoscendo perfettamente le conseguenze, si dovrebbe vedere queste azioni in una prospettiva più ampia, nella quale le priorità e il razionale delle cose si ridimensionano, dove la frustrazione di sentirsi totalmente soli, di non poter respirare l’aria di tutti, di dover usare lo stesso bagno di altre dieci persone, di vedere le sbarre, supera qualsiasi assennatezza e spesso determina la compromissione e o il fallimento di qualsiasi proposito ragionevole.
E chissà quante volte, ci si trova a considerare certe condizioni o peggio, a giudicarle, senza aver mai provato frustrazioni di quel genere, e senza sapere che forse se si fosse nati in famiglie o cresciuti in contesti in cui ci si fosse trovati più volte o costantemente a dover vivere profondamente la sensazione di non essere importanti per nessuno, di non essere visti, voluti, pensati, amati, una condizione che diventa parte di sé, che diventa ciò che ti spetta, probabilmente non si sarebbe in grado di comportarsi in modo diverso.

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Pochi giorni fa in una conferenza, il noto sociologo polacco Bauman, citando Umberto Eco, ha detto: “La condizione fondamentale perché esista un essere umano è la presenza di un altro essere umano. È il suo sguardo, quello dell’altro, che definisce chi siamo. Così come non possiamo non mangiare o non dormire, non possiamo esistere senza la reazione di un altro che ci vede”.

Ecco, se si tenesse sempre presente questo fondamentale concetto, sarebbe più facile entrare in empatia e comprendere determinati stili di vita certamente scelti, ma mai a caso.
Ed è ciò che risalta di più nella tenerezza e nella verità dell’opera di Giovannesi.

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Oltre che bellissima e perfettamente a suo agio nella scena, è particolarmente carismatica la piccola e potentissima Daphne Scoccia, che, con i suoi primi piani e la sua espressività, costituisce da sola la fonte di gran parte dell’energia del film.
Pur così giovane e totalmente inesperta (Giovannesi ha dichiarato di aver scelto appositamente, a favore dell’autenticità, degli attorni non professionisti), è in grado di trasmettere molto bene vissuti profondi anche di polarità totalmente opposta, rabbia, estrema diffidenza, speranza, timidezza, gioia.
Molto bella e indicativa in questo senso la scena in cui in silenzio, solo guardando il padre che tra poche ore dovrà riportarla in carcere, esprime in modo intenso e doloroso tutta la tristezza e l’incapacità di godere dei pochi momenti di svago che le sono stati concessi.

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Incisiva e riuscita anche la partecipazione, per quanto marginale, del solito efficacissimo Valerio Mastandrea, nel ruolo di un padre disastrato che prova a rimettere insieme i pezzi della sua vita, che vuole bene alla figlia ma è del tutto incapace di occuparsene, possedendo a stento, e da pochissimo tempo, gli strumenti per badare a se stesso. E restando in piedi, a conferma di quanto detto, solo grazie a una presenza affettiva stabile, che gli dà modo di dare un senso alla sua vita.

Tra i difetti – forse un po’ troppo lungo -, non si può certo definirlo un film avvincente, ma non vuole nemmeno esserlo, ci si trova senza dubbio davanti a un prodotto riuscito, nel quale è possibile individuare diversi pregi, non ultimo, tra gli altri, quello di introdurre lo spettatore in una realtà non esattamente accessibile e di comunicarne più che discretamente gli aspetti più profondi.

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2 pensieri riguardo “FIORE – Claudio Giovannesi – Italia, 2016.”

  1. riesce a far riflettere sulla vita dietro le sbarre, che non ferma i sentimenti e i conflitti che ogni giovane vive nella sua vita. Evita di caricare il dramma con i classici espedienti del genere carcerario, ha ottimi attori. Bello

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